Riforma del lavoro. Che ci siano finalità diverse?


L’accanimento sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ci dice molto sulla natura del governo Monti e sulle sue finalità. A giudicare dai dati e dai commenti di diversi economisti, tale atteggiamento verso norme come questa non trova spiegazione. O almeno non quelle che ci forniscono politici e tecnici vari.
Gli studi dell’OCSE non sono riusciti a dimostrare che maggiore flessibilità comporta una riduzione della disoccupazione: mettendo in relazione l’indice EPL (che misura il grado di protezione del lavoro) con il tasso di disoccupazione di diversi Paesi, non si riscontra alcuna correlazione. Questo vuol dire, ad esempio, che eliminando o ridimensionando l’articolo 18  aumenta il grado di flessibilità in uscita e si riduce l’EPL, ma non c’è prova empirica a dimostrare che tutto questo serva ad aumentare l’occupazione.
E dunque, se non è provato che misure del genere hanno effetti positivi sull’occupazione, perché mai insistere?
Focalizzandosi poi sull’articolo 18, si ripete spesso che rappresenta un ostacolo alla crescita dimensionale delle imprese e al conseguente probabile incremento di produttività. La legge però prevede che il suo campo di applicazione riguardi solo le imprese con più di 15 dipendenti e quindi, se così fosse, dovremmo avere un gran numero di imprese con 15 dipendenti o magari 14 o 13. I dati invece ci dicono che il 95% delle imprese italiane non supera la soglia delle 10 unità. Difficile quindi imputare ad esso la responsabilità del loro nanismo.
A confermare tutto ciò, il sondaggio Unioncamere-Excelsior mostra le cause che impediscono l’assunzione secondo gli imprenditori, che tirano in ballo la mancanza di nuove commesse (5,7%),  l´incertezza e la domanda in calo (14,1), ma non menzionano l’articolo 18. 
Poiché i dati non confermano le tesi dominanti e poiché il governo non è composto da sprovveduti, devono esserci altre ragioni dietro il ridimensionamento dell’articolo 18 e dietro provvedimenti simili.
È inevitabile non cercare in Germania, presa a modello da tanti europei e guida di Eurolandia, l’ispirazione di tali politiche. Poiché gli indici di protezione dei lavoratori a tempo indeterminato contro il licenziamento individuale ci dicono che in Italia è molto più facile che in Germania licenziare un singolo lavoratore (nel 2010, 1,69 contro 2,85) , allora deve esserci ben altro che le ispira.
Tra le varie misure, il Paese ha anche adottato una politica di deflazione: dal 2000 i salari tedeschi sono diminuiti del 4,5 % in termini reali, contribuendo quindi a ridurre i costi di produzione delle proprie merci e rendendole più competitive sul mercato internazionale.
Ridurre le protezioni al lavoro, infatti, ha come effetto la riduzione della forza contrattuale dei lavoratori e quindi dei salari. Facendo un ragionamento “tecnico” (che va di moda) potrebbe essere questo il disegno che c’è dietro tali misure: aumentare la competitività e tentare di sollevare il Pil italiano facendo leva sulle esportazioni. Innescando (o accentuando) una gara a ribasso tra i salari dei diversi Paesi. Se pensiamo che il ruolo del premier è quasi quello di una sorta di curatore fallimentare, che deve attenersi alla lettera ricevuta dal precedente governo dalla Banca Centrale più anti-inflazione del mondo e che le misure sono gradite dalla maggioranza parlamentare che lo appoggia, il ragionamento fila.
Ci aspetta dunque, nascosta dietro i proclami sui giovani e sull’occupazione, una politica non dichiarata di riduzione di salari, tutele e diritti?

25/03/2012

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