Le conseguenze del pareggio di bilancio
Il
Parlamento sta per votare l’introduzione del principio del pareggio di bilancio
in Costituzione. Il consenso alle Camere finora è stato enorme e i media non
hanno approfondito la questione. Eppure la modifica dell’art. 81, che regola
una questione delicata come la politica fiscale, meriterebbe più attenzione.
Imporre
l’equilibrio tra entrate e spese del bilancio dello Stato e limitare il ricorso
all’indebitamento vuol dire impedire ad un qualunque governo di scegliere
liberamente quali politiche economiche adottare. Un governo dovrebbe essere
libero sia di perseguire una politica di rigore nei conti pubblici, tenendo
sotto controllo la spesa, sia di optare per una politica keynesiana di
incremento della spesa anche in deficit, al fine di stimolare con mano pubblica
l’economia del Paese. Questa possibilità di scelta verrebbe meno con
l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione. Ogni giorno ascoltiamo
infatti i rigoristi che guidano Eurolandia incolpare debiti e deficit pubblici
dei Paesi periferici e quindi premere per la sua introduzione. Sebbene si
tratti solo di un’opinione, sta per diventare addirittura una norma
costituzionale!
I
dati, ad esempio, non mostrano un chiaro e diretto legame tra deficit, debito
pubblico e Piigs. Il confronto tra le medie dei deficit/Pil dei paesi europei tra
1999 (entrata in vigore dell’euro) e 2007 (vigilia della crisi) ci dice che
solo i dati di Grecia e Italia sono superiori al dato della Germania, che è superiore
a quello di Portogallo, Spagna e Irlanda e che questi ultimi due sono addirittura
inferiori a 0! Situazione
simile se si confronta il debito pubblico/Pil del 2007, quando Spagna e Irlanda
vantavano un dato di gran lunga inferiore a quello della Germania. Grecia e
Italia avevano già il debito più elevato e i portoghesi erano in quarta
posizione con un dato poco superiore alla media dell’Europa a 16, ma i tedeschi
occupavano la posizione numero 5, di poco inferiore.
Autorevoli
economisti criticano la visione dei rigoristi che confonde il bilancio dello
Stato, che è un sistema complesso, con quello di una semplice famiglia. Facendo notare che i governi
devono solo assicurarsi che il debito cresca meno della base tassabile e che il
debito di uno Stato è in gran parte dovuto ai suoi stessi cittadini, si oppongono
alle loro tesi. Alcuni Nobel, alle prese con il balanced budget negli Stati
Uniti, hanno scritto di recente un appello contro il pareggio di bilancio, definendolo
una camicia di forza. Avvertono,
tra l’altro, che chiudere ogni anno il bilancio in pareggio aggrava le
recessioni, impedisce di ricorrere al credito per finanziare infrastrutture,
istruzione e altri investimenti e favorisce dubbie manovre come vendita di
terreni demaniali e altri beni pubblici.
Le
probabili conseguenti privatizzazioni e tagli al welfare (con annessa crescita
di mercati privati, dalla previdenza complementare alla sanità privata) possono
essere dannose per il popolo e convenire solo a una ristretta cerchia di persone
in cerca di rendita e profitti facili. È quindi sconcertante che il nostro
Parlamento mostri un così largo consenso per una norma che, oltre a vietare
incoscientemente politiche keynesiane, porterà vantaggi solo ai soliti noti.
Difficile pensare che si tratti solo di una operazione d’immagine, magari
comprensiva di facili deroghe (a cui forse si riferisce la norma quando cita
fasi avverse e fasi favorevoli del ciclo economico). Se così fosse, il danno di
credibilità sarebbe di gran lunga maggiore dei vantaggi. È più facile credere
che i partiti italiani, ad eccezione della Sinistra extra-parlamentare che si
oppone e difende ancora Keynes, abbiano chinato la testa di fronte all’Europa
neoliberista e, conseguentemente, abbiano preferito rappresentare solo gli
interessi di pochi, quei soliti noti, rinunciando a rappresentare gli interessi
del popolo che li ha eletti e portati in Parlamento.
11/04/2012
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