Il lavoro secondo Mario Monti (e la Sinistra)
La campagna elettorale italiana entra nel vivo ed il terreno di scontro favorito da Mario Monti è quello del lavoro. Il bersaglio preferito è l'ala sinistra del centrosinistra che, da Stefano Fassina fino a Nichi Vendola, viene continuamente bollata come conservatrice. Come slogan potrebbe anche suonare bene e portare voti. Monti, dice, vuole "andare più a fondo per le
riforme sul lavoro di quanto la Cgil e il Pd consentano".
Ma dove vuole andare?
Riprendo e riassumo le riflessioni maturate ai tempi della Riforma del Lavoro e ai tempi dell'accordo di produttività.
La Riforma del Lavoro del governo Monti puntava su maggiore flessibilità per creare posti di lavoro.
Come dimostra Brancaccio, però, gli studi dell'OCSE non sono riusciti a dimostrare che maggiore flessibilità si traduca in maggiore occupazione: mettendo in relazione l’indice EPL (che misura il grado di protezione del lavoro) con il tasso di disoccupazione di diversi Paesi, non si riscontra alcuna correlazione, come si vede dal grafico che mostra l'economista.
Questo vuol dire, ad esempio, che quando il governo Monti ha ridimensionato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha aumentato il grado di flessibilità in uscita e l’indice di protezione del lavoro si è ridotto, ma non c’è alcuna prova empirica a dimostrare che tutto questo possa mai servire ad aumentare l’occupazione.
Dietro i proclami del tipo "più lavoro per tutti!" si nascondeva e si nasconde, evidentemente, qualcos'altro.
Ridurre le protezioni al lavoro, infatti, ha come effetto la riduzione della forza contrattuale dei lavoratori e quindi dei salari. La deflazione salariale, dunque, potrebbe essere la soluzione "montiana" per aumentare la competitività delle merci italiane all'estero e tentare di sollevare il Pil facendo leva sulle esportazioni.
L'accordo sulla produttività di novembre tra il governo Monti e le parti sociali (senza la firma della Cgil) puntava sul decentramento contrattuale.
Potenziare la contrattazione decentrata a scapito di quella nazionale, però, vuol dire dividere i lavoratori. Trasferire al contratto di secondo livello competenze come la regolazione di orari, turni, una quota degli aumenti derivanti dai rinnovi ecc. vuol dire frammentare ancora di più il mondo del lavoro, indebolirlo e, di conseguenza, ridimensionarne le rivendicazioni. Anche salariali.
Si dice che due indizi facciano una prova ma, a parte il processo alle intenzioni di un candidato che punta al voto confindustriale, resta il fatto che la strada che propone la coalizione di Monti conduce a retribuzioni sempre più basse.
Lo strumento della deflazione salariale, però, può innescare (o accentuare) una gara a ribasso tra i salari sul piano internazionale e può anche scoraggiare l'innovazione (in un periodo difficile come questo, l'impresa può garantire i profitti grazie alla riduzione del costo del lavoro e non avvertire l'esigenza di fare investimenti costosi che danno frutti solo nel lungo periodo) e comprimere il potere d'acquisto dei lavoratori e, di conseguenza, i consumi e la domanda.
Non sono solo supposizioni. Le prospettive per l'economia italiana dell'Istat, dopo un anno di governo tecnico, confermavano quanto appena scritto: i consumi e gli investimenti calano e caleranno.
Per quanto riguarda le altre formazioni, con riferimento a quelle grosso modo contrarie alla deflazione salariale, l'offerta politica in materia lavoristica si sta delineando a poco a poco con più chiarezza. Le dinamiche che contribuiscono alla formazione dei loro indirizzi politici sono interessanti per capire cosa spinge verso una direzione o verso l'altra.
Pietro Ichino, sostenitore di un mercato del lavoro più flessibile, ha lasciato il Partito Democratico per la coalizione di Mario Monti. La sconfitta alle primarie di Renzi, al quale il giuslavorista ha dato il suo contributo nella stesura del programma sul lavoro, ed anche la decisa presenza nella coalizione di centrosinistra di un partito fortemente contrario ad ulteriore flessibilità come Sinistra Ecologia e Libertà hanno inciso sicuramente sulla sua decisione. Questo, ovviamente, non vuol dire automaticamente che il Pd si sia spostato in una posizione nettamente contraria alla svalutazione del lavoro, ma è comunque un passo verso quella direzione. Ad esempio, in un'altra chiamata al voto, il contributo dell'elettorato di centrosinistra è stato prezioso a decretare il successo dell'area laburista del partito alle primarie per i parlamentari, con l'affermazione di candidati anti-svalutazione come Stefano Fassina, ma subito dopo la segreteria ha controbilanciato candidando dall'alto profili cosiddetti liberali. Il partito di Vendola continua a lavorare ai fianchi del Pd per spostare l'asse della coalizione il più possibile vicino alle proprie posizioni in materia. Un programma contro la svalutazione del lavoro si trova anche nella lista di Ingroia, della quale, infatti, fanno parte i partiti che hanno aderito ai referendum sul lavoro insieme a SeL, ma si tratta di una lista d'opposizione e a vocazione minoritaria.
Da queste dinamiche e dal contributo che darà ad esse il nostro voto si formeranno il prossimo governo ed il prossimo parlamento e, quindi, il mercato del lavoro del futuro.
Ma dove vuole andare?
Riprendo e riassumo le riflessioni maturate ai tempi della Riforma del Lavoro e ai tempi dell'accordo di produttività.
La Riforma del Lavoro del governo Monti puntava su maggiore flessibilità per creare posti di lavoro.
Come dimostra Brancaccio, però, gli studi dell'OCSE non sono riusciti a dimostrare che maggiore flessibilità si traduca in maggiore occupazione: mettendo in relazione l’indice EPL (che misura il grado di protezione del lavoro) con il tasso di disoccupazione di diversi Paesi, non si riscontra alcuna correlazione, come si vede dal grafico che mostra l'economista.
Questo vuol dire, ad esempio, che quando il governo Monti ha ridimensionato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha aumentato il grado di flessibilità in uscita e l’indice di protezione del lavoro si è ridotto, ma non c’è alcuna prova empirica a dimostrare che tutto questo possa mai servire ad aumentare l’occupazione.
Dietro i proclami del tipo "più lavoro per tutti!" si nascondeva e si nasconde, evidentemente, qualcos'altro.
Ridurre le protezioni al lavoro, infatti, ha come effetto la riduzione della forza contrattuale dei lavoratori e quindi dei salari. La deflazione salariale, dunque, potrebbe essere la soluzione "montiana" per aumentare la competitività delle merci italiane all'estero e tentare di sollevare il Pil facendo leva sulle esportazioni.
L'accordo sulla produttività di novembre tra il governo Monti e le parti sociali (senza la firma della Cgil) puntava sul decentramento contrattuale.
Potenziare la contrattazione decentrata a scapito di quella nazionale, però, vuol dire dividere i lavoratori. Trasferire al contratto di secondo livello competenze come la regolazione di orari, turni, una quota degli aumenti derivanti dai rinnovi ecc. vuol dire frammentare ancora di più il mondo del lavoro, indebolirlo e, di conseguenza, ridimensionarne le rivendicazioni. Anche salariali.
Si dice che due indizi facciano una prova ma, a parte il processo alle intenzioni di un candidato che punta al voto confindustriale, resta il fatto che la strada che propone la coalizione di Monti conduce a retribuzioni sempre più basse.
Lo strumento della deflazione salariale, però, può innescare (o accentuare) una gara a ribasso tra i salari sul piano internazionale e può anche scoraggiare l'innovazione (in un periodo difficile come questo, l'impresa può garantire i profitti grazie alla riduzione del costo del lavoro e non avvertire l'esigenza di fare investimenti costosi che danno frutti solo nel lungo periodo) e comprimere il potere d'acquisto dei lavoratori e, di conseguenza, i consumi e la domanda.
Non sono solo supposizioni. Le prospettive per l'economia italiana dell'Istat, dopo un anno di governo tecnico, confermavano quanto appena scritto: i consumi e gli investimenti calano e caleranno.
Per quanto riguarda le altre formazioni, con riferimento a quelle grosso modo contrarie alla deflazione salariale, l'offerta politica in materia lavoristica si sta delineando a poco a poco con più chiarezza. Le dinamiche che contribuiscono alla formazione dei loro indirizzi politici sono interessanti per capire cosa spinge verso una direzione o verso l'altra.
Pietro Ichino, sostenitore di un mercato del lavoro più flessibile, ha lasciato il Partito Democratico per la coalizione di Mario Monti. La sconfitta alle primarie di Renzi, al quale il giuslavorista ha dato il suo contributo nella stesura del programma sul lavoro, ed anche la decisa presenza nella coalizione di centrosinistra di un partito fortemente contrario ad ulteriore flessibilità come Sinistra Ecologia e Libertà hanno inciso sicuramente sulla sua decisione. Questo, ovviamente, non vuol dire automaticamente che il Pd si sia spostato in una posizione nettamente contraria alla svalutazione del lavoro, ma è comunque un passo verso quella direzione. Ad esempio, in un'altra chiamata al voto, il contributo dell'elettorato di centrosinistra è stato prezioso a decretare il successo dell'area laburista del partito alle primarie per i parlamentari, con l'affermazione di candidati anti-svalutazione come Stefano Fassina, ma subito dopo la segreteria ha controbilanciato candidando dall'alto profili cosiddetti liberali. Il partito di Vendola continua a lavorare ai fianchi del Pd per spostare l'asse della coalizione il più possibile vicino alle proprie posizioni in materia. Un programma contro la svalutazione del lavoro si trova anche nella lista di Ingroia, della quale, infatti, fanno parte i partiti che hanno aderito ai referendum sul lavoro insieme a SeL, ma si tratta di una lista d'opposizione e a vocazione minoritaria.
Da queste dinamiche e dal contributo che darà ad esse il nostro voto si formeranno il prossimo governo ed il prossimo parlamento e, quindi, il mercato del lavoro del futuro.
Commenti
Posta un commento