No alibi al cambiamento: la ripartenza è solo un rimbalzo precario
La ripartenza dell'economia è un rimbalzo tecnico e precario: non funga da alibi per impedire i grandi cambiamenti attesi da tutti noi durante le fasi più acute della pandemia. Un mio commento apparso con il titolo "La ripresa è un “rimbalzo” E la precarietà continua a dilagare" su Strisciarossa.
La progressiva riapertura dei luoghi e delle attività finora in lockdown ci riporta lentamente verso un’apparenza di “normalità” e, con essa, anche i dati sulla crescita e sull’occupazione indicano primi segnali di ripartenza per il nostro Paese. Si tratta di dati che, come vedremo a breve, vanno anche contestualizzati ed approfonditi per ottenere un quadro più completo del tipo di ripresa a cui stiamo assistendo. Nel frattempo, però, non mancano i commenti entusiastici da parte di molti esponenti del governo. Si pensi, ad esempio, a come sono stati accolti i dati sul mercato del lavoro diffusi la scorsa settimana da Istat, MdL, Inps, Inail e Anpal nella loro consueta Nota trimestrale congiunta. Dati come, ad esempio, l’incremento nel secondo trimestre del 2021 dell’input di lavoro del 3,2% e su base annua del 18,3% sono stati salutati e rivenduti come straordinari e decisivi. Esternazioni che non tengono propriamente conto anche di quello che si cela dietro queste statistiche, in termini di ragioni tecniche del “rimbalzo” ed in termini di qualità dell’occupazione creata. Si tratta, però, di esternazioni che finiscono per diventare strumentali a proseguire una vecchia agenda politica che ha già mostrato, anche e soprattutto con la pandemia da CoVID-19, tutta la sua inefficacia.
Innanzitutto, secondo le stime dell’OCSE, l’Italia crescerà del 5,9% quest’anno e del 4,1% l’anno prossimo, dopo una riduzione del Pil nel 2020 di ben l’8,9%. Si tratta, a ben vedere, di andamenti comuni nelle economie colpite dalla pandemia e che non hanno nulla di tanto straordinario da suscitare entusiasmi eccessivi. La media dell’Eurozona, ad esempio, dovrebbe registrare un +5,3% quest’anno e un +4,6% il prossimo anno, a fronte di una contrazione nel 2020 di gran lunga inferiore a quella che ha colpito l’Italia, del -6,5%. Se questi dati dimostrano il carattere fisiologico e, purtroppo, ancora relativamente timido della ripresa che stiamo vivendo, le statistiche sul mercato del lavoro ci raccontano anche di una crescita fatta di precarietà ed ancora molto lontana dal creare i livelli occupazionali pre-pandemia.
Le posizioni lavorative attivate nel trimestre, infatti, crescono di 153mila unità ma ben 111mila di queste sono a tempo determinato. Tra queste, il 35,1% ha una durata prevista fino a 30 giorni, il 37,3% da due a sei mesi e solo lo 0,6% supera un anno. Crescono parecchio i contratti a somministrazione (+39%) e quelli a chiamata o intermittenti (+63,8% su base annua). La domanda di lavoro da parte delle imprese è infatti caratterizzata da un elevato grado di incertezza riguardo il futuro ed, anche per questo, tende a oscillare ancora più del solito verso i contratti a tempo a discapito di quelli a tempo indeterminato. Oltre alla tradizionale debolezza contrattuale della classe lavoratrice durante periodi di alta disoccupazione come questo, anche la sospensione delle misure del Decreto Dignità, disegnate per disincentivare i contratti meno tutelati, ha ulteriormente favorito questo tipo di domanda da parte delle imprese. Nonostante questi importanti incrementi, comunque, la gran mole di contratti precari non spinge affatto il tasso di occupazione ai livelli pre-pandemia: i dati non destagionalizzati diffusi nella Nota trimestrale parlano infatti di un 49,3%, a fronte di un 50,7% dello stesso trimestre nel 2019. La strada è sicuramente lunga ed è importante aver imboccato la direzione giusta, ma è necessario far emergere quale sia il tipo di ripresa che stiamo percorrendo, quali soggetti e quali classi sociali avvantaggerà maggiormente e quanto sia destinata a perdurare nel tempo.
É chiaro che lavoratori meno tutelati sono anche lavoratori destinati a partecipare in misura minore alla redistribuzione tra profitti e salari della ricchezza generata. Soprattutto se la ripresa non è accompagnata da forti aspettative positive sul futuro e non è supportata da un sistema produttivo strutturalmente robusto e innovativo, supportato da una guida di indirizzo politico realmente strategica e lungimirante, i maggiori profitti conseguiti rischiano di non trasformarsi in maggiori investimenti. In altri termini, la quota salari sul Pil rischia di ridursi ulteriormente a vantaggio solo dei percettori di profitti e rendite. Ricordiamo che in Italia negli anni Settanta tutto l’insieme della classe lavoratrice, in aggregato, percepiva intorno al 65% della ricchezza prodotta, mentre negli ultimi anni si parla di poco più del 50%. Dinamiche comuni anche in altre economie occidentali, ma che la dicono lunga sugli effetti concreti e tangibili dell’agenda neoliberale adottata negli ultimi decenni da Paesi come il nostro. Tra l’altro, soprattutto in economie caratterizzate dalla dimensione e dal tipo di apertura con l’estero dell’Italia, questo genere di redistribuzione dal lavoro al capitale finisce anche per minare la crescita stessa, proprio perché, a fronte di effetti strutturalmente minori sulla profittabilità degli investimenti e sulle esportazioni, disincentiva driver fondamentali della domanda aggregata dal momento che i percettori di salario hanno mediamente una propensione al consumo maggiore. É anche per questo che, storicamente, le battaglie della Sinistra si riconoscono sotto la bandiera di maggiori diritti e tutele al mondo del lavoro ed all’insegna del progresso.
Guardiamo, invece, all’agenda politica seguita in questi mesi dal governo in proposito. A fronte dell’elevato grado di precarietà che pervade il mondo del lavoro, non emergono coraggiose proposte di riequilibrio dei rapporti di forza capitale-lavoro o contro i contratti collettivi pirata e resta intatta la sospensione del Decreto Dignità fino a settembre 2022. Nonostante la pandemia abbia dimostrato a tutti l’importanza di un welfare universalistico, la centralità della sanità e della ricerca e, più in generale, di tutto il settore pubblico, i rinnovi contrattuali vanno a rilento con proposte modeste da parte datoriale, le assunzioni nella Pubblica Amministrazione non sono sufficienti neanche a coprire i pensionamenti e la tanto annunciata riforma degli ammortizzatori sociali manca ancora all’appello. Un nulla di fatto, a quanto pare, anche per le nuove proposte di ridistribuzione dai grandi patrimoni alla collettività tramite, ad esempio, i prelievi sulle successioni. Inoltre, dinanzi allo spettro ingombrante della chiusura di grandi stabilimenti (si pensi ad esempio alla GKN), si prospetta un decreto anti-delocalizzazioni estremamente timido intorno al quale pare stia prevalendo la linea dell’incentivare chi semplicemente resta, invece di scoraggiare con mezzi sanzionatori chi chiude e porta i capitali all’estero lasciando dietro di sé migliaia di senza lavoro. Anche davanti alla grande sperimentazione di massa di nuove forme di organizzazione del lavoro, come ad esempio lo smart working nella Pubblica Amministrazione, si sceglie di riportare sostanzialmente le lancette dell’orologio allo status pre-pandemia, invece che aprire un varco per una seria elaborazione dei suoi pro e contro e per ridefinire la vita lavorativa all’insegna del progresso umano ed economico.
Sembra, per certi versi, di rivedere la città «priva di intuizioni», destinata a non cambiare mai, descritta pungentemente da Albert Camus nel classico del Novecento “La Peste”. Nonostante la portata storica di un evento drammatico come la pandemia da CoVID-19, che ha ridisegnato la nostra quotidianità e molte delle nostre certezze, non si intravedono importanti ripensamenti dell’agenda politica e di questo eterno status quo. Ed è proprio in tutte queste assenze che deve inserirsi una coraggiosa ed ostinata proposta politica da parte della Sinistra. Una proposta politica in forte controtendenza rispetto agli assetti attuali, fatta di maggiore democrazia sui luoghi di lavoro, socializzazione degli investimenti strategici, diritti universali e ridistribuzione, che metta al centro l’uomo prima del profitto. In fondo, anche l’insegnamento più profondo del romanzo di Camus, rintracciabile in particolar modo nel personaggio del dottor Rieux, è proprio questo: anche se può sembrare assurdo o impossibile, mai smettere la lotta.
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