Meno salario per tutti
L'accordo sulla produttività tra esecutivo e parti sociali (senza la firma della Cgil) sembra confermare le prime impressioni sugli strumenti che questo governo vuole adottare per affrontare la crisi economica.
Mi riferisco, in particolare, allo strumento della deflazione salariale.
Un post scritto a marzo, all'indomani della riforma del lavoro, metteva in dubbio le tesi addotte dai tecnici e portava ad una conclusione: il disegno che c’era dietro quelle misure poteva essere quello di aumentare la competitività dei prodotti italiani sul mercato internazionale comprimendo il costo del lavoro. Un tentativo di sollevare il Pil del Paese facendo leva sulle esportazioni in una sorta di gara a ribasso tra i salari dei diversi Stati.
L'accordo firmato di recente da imprese e sindacati potenzia la contrattazione decentrata, a scapito di quella nazionale e questo vuol dire dividere i lavoratori. Trasferire al contratto di secondo livello competenze come la regolazione di orari, turni, una quota degli aumenti derivanti dai rinnovi ecc. vuol dire frammentare ancora di più il mondo del lavoro, indebolirlo e, di conseguenza, ridimensionarne le rivendicazioni. Anche salariali.
Lo strumento della deflazione salariale, però, può scoraggiare l'innovazione (in un periodo difficile come questo, l'impresa può garantire i profitti grazie alla riduzione del costo del lavoro e non avvertire l'esigenza di fare investimenti costosi che danno frutti solo nel lungo periodo) e comprimere il potere d'acquisto dei lavoratori e, di conseguenza, i consumi e la domanda.
Non sono solo supposizioni. Gli ultimi dati Istat confermano quanto appena scritto: i consumi e gli investimenti calano e caleranno.
Mi riferisco, in particolare, allo strumento della deflazione salariale.
Un post scritto a marzo, all'indomani della riforma del lavoro, metteva in dubbio le tesi addotte dai tecnici e portava ad una conclusione: il disegno che c’era dietro quelle misure poteva essere quello di aumentare la competitività dei prodotti italiani sul mercato internazionale comprimendo il costo del lavoro. Un tentativo di sollevare il Pil del Paese facendo leva sulle esportazioni in una sorta di gara a ribasso tra i salari dei diversi Stati.
L'accordo firmato di recente da imprese e sindacati potenzia la contrattazione decentrata, a scapito di quella nazionale e questo vuol dire dividere i lavoratori. Trasferire al contratto di secondo livello competenze come la regolazione di orari, turni, una quota degli aumenti derivanti dai rinnovi ecc. vuol dire frammentare ancora di più il mondo del lavoro, indebolirlo e, di conseguenza, ridimensionarne le rivendicazioni. Anche salariali.
Lo strumento della deflazione salariale, però, può scoraggiare l'innovazione (in un periodo difficile come questo, l'impresa può garantire i profitti grazie alla riduzione del costo del lavoro e non avvertire l'esigenza di fare investimenti costosi che danno frutti solo nel lungo periodo) e comprimere il potere d'acquisto dei lavoratori e, di conseguenza, i consumi e la domanda.
Non sono solo supposizioni. Gli ultimi dati Istat confermano quanto appena scritto: i consumi e gli investimenti calano e caleranno.
Ma è anche
chiaro che il governo non è intenzionato ad invertire questo
trend. Chi vuole sollevare i consumi, ad esempio, non aumenta l'IVA. Chi
vuole stimolare gli investimenti non soffoca le aspettative di vendita
delle imprese con mercato nazionale adottando manovre restrittive (il
contributo della domanda interna al netto delle scorte è previsto dall'Istat ancora negativo sia nel 2012 sia nel 2013).
La risposta alla domanda che concludeva il già citato post, insomma, somiglia sempre più ad un sì.
La risposta alla domanda che concludeva il già citato post, insomma, somiglia sempre più ad un sì.
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