Il piano per il profitto di Letta e la rappresentanza del lavoro

Il "piano per il lavoro" del governo Letta promette tanti nuovi posti di lavoro grazie ad incentivi temporanei alle assunzioni di giovani e grazie ad una maggiore flessibilità in entrata. Sono previsti, ad esempio, bonus limitati a 18 mesi per chi assume giovani in determinate condizioni e la riduzione degli intevalli di tempo per i rinnovi dei contratti a tempo determinato. 
Come sottolinea Tito Boeri, però, gli sgravi temporanei si sono dimostrati inefficaci in passato: i posti aggiuntivi sono pochissimi e che ne beneficiano soprattutto imprese che avrebbero comunque fatto assunzioni.
Neanche la maggiore flessibilità si è finora dimostrata efficace nel creare posti di lavoro. Come spiegava Emiliano Brancaccio, gli studi dell'OCSE non sono riusciti a dimostrare che maggiore flessibilità si traduce in maggiore occupazione. Come già spiegato in altri post, questo genere di politiche ha come conseguenza, invece, la caduta dei salari e rischia di accentuare una gara a ribasso tra i livelli salariali dei diversi Paesi, scoraggiare l'innovazione, comprimere il potere d'acquisto dei lavoratori e, di conseguenza, i consumi e la domanda.
Se, dunque, queste misure non aiuteranno la riduzione del tasso di disoccupazione, che fine faranno i soldi pubblici degli sgravi alle assunzioni e i minori costi del lavoro legati alla maggiore possibilità di ricorrere al precariato? Non è difficile immaginare che andranno a gonfiare i profitti delle imprese che avrebbero assunto anche senza l'aiuto pubblico degli sgravi e di quelle che vedono la possibilità di assumere con contratti precari più facilmente. 
Si può sperare che questi maggiori profitti vengano reinvestiti, in un secondo momento, in innovazione e assunzioni. Di questi tempi, però, in cui non si vede ombra di ripresa, le possibilità che ciò accada sono quasi nulle. Quali imprese investono se non ci sono prospettive di guadagni in futuro? 
Ci sono molte ragioni per credere che il "piano per il lavoro" di Letta sia, in realtà, "un piano per il profitto" e nient'altro. 
In tempi di larghe intese, però, l'opposizione sembra quasi mancare. Tra una sinistra interna al Pd, e quindi interna allo stesso governo, uscita sconfitta dopo le elezioni e alla fine di quel romanzo senza lieto fine che è stata la vicenda del Quirinale e, ancora, gaffe a 5 stelle e voci di sinistra minoritarie che invocano new deal come Sinistra ecologia e libertà, manca un fronte forte ed unito che rappresenti il mondo del lavoro e porti avanti una battaglia contro le ricette liberiste che ci vengono prescritte.
Un fronte che può nascere a sinistra e solo se le forze che si riconoscono in questi valori sapranno mettersi in discussione, unirsi e farsi riconoscere. Diverse battaglie in Parlamento hanno visto un asse tra 5 stelle e Sel, dagli F-35 alle commissioni permanenti, mentre il movimento di Grillo sembra diviso tra talebani (i falchi) e dissidenti (le colombe). In Sel si parla ancora di unione col Pd, non senza divisioni sul tema. Nel Pd ci si sta contando per il congresso, che potrebbe portare il Pd a destra o a sinistra o lasciarlo così com'è
Questa fotografia della situazione attuale dimostra che regna una gran confusione e che la forza politica di cui c'è bisogno per rappresentare il mondo del lavoro e per difendere i diritti dei più deboli è più che mai frammentata. Ogni sforzo e tentativo di dialogo e ricostruzione è più che mai necessario.

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